CulturaLettera 22
Tendenza

Il Circo Frilli

Il nostro Circo non era un circo come gli altri, anzi, per meglio dire, era piuttosto azzardato definirlo circo, quanto meno per l’idea che comunemente si associa a questa definizione. Eravamo più che altro una combriccola di saltimbanchi cresciuti sotto un tendone, senza alcuna possibilità e, diciamolo pure, senza alcuna voglia di imparare un mestiere diverso. Ma non era stato sempre così…

Gastone Frilli, nostro padre, sognava di diventare un grande domatore di leoni. L’arte gli era stata trasmessa dal nonno Augusto che, a causa di uno spiacevole incidente, non fece in tempo a completare il suo addestramento e lo lasciò orfano… ma andiamo per ordine. Nonno Augusto, a quei tempi, parliamo dei primi anni ’60 e noi eravamo ancora ragazzini, era nel pieno della sua vigoria fisica. Al contrario, Simba, il vecchio leone, cominciava a mostrare un certo affanno: era pieno di acciacchi, soffriva di reumatismi e, a causa di una noiosissima gengivite, stava perdendo, uno per volta, tutti i denti.
Il nonno temporeggiava, diceva che doveva pensare a tutto lui e solo quando realizzò che Simba aveva perso in un sol colpo i due canini, si decise finalmente a intervenire. Papà diceva che avrebbe dovuto chiamare il veterinario per tempo, ma il nonno sosteneva che quelli ne capivano solo di pecore e di vacche e che al suo leone era giusto che ci pensasse lui, e così fece. Il nonno aveva un’inventiva straordinaria, sapeva fare di tutto e così costruì con le sue mani una protesi artigianale che Simba si lasciava applicare con grande spirito di sopportazione.
Se devo essere sincero, non è che fosse un granché: due semplici pezzi di corno legati con del filo di ferro, sagomato in modo strano, che nonno Augusto agganciava ai molari del povero Simba. Non è che li portasse sempre, del resto erano anni che non masticava più tanto bene e andava avanti a pappine di carne cruda macinata, ma quando era il momento di scendere in pista, Simba si trasformava: dimenticava tutti i suoi acciacchi e sembrava scoppiare di salute. Visti da lontano quei falsi canini facevano la loro bella figura. Nessuno avrebbe immaginato la verità, sennonché, un bel giorno…

“Signore e signori, un momento di attenzione, prego… tra pochi minuti Augusto Frilli, il più grande domatore del mondo, si esibirà in un esercizio pericolosissimo: infilerà la sua testa nelle fauci spalancate di Simba, un leone feroce, un divoratore di uomini! L’ultimo che ci ha provato, Monsieur Flambert, il grande domatore francese, si è salvato per miracolo e porta ancora impressi sul volto i segni del terribile morso di Simba. Signore e signori, vi preghiamo di non applaudire, di non gridare, di non fare il benché minimo rumore… e se proprio dovete respirare, fatelo in silenzio!”
Le luci si spengono, rullo di tamburi… “Ed ecco a voi l’uomo che tutto il mondo ci invidia… Augusto Frilli!”.
Un cerchio di luce illumina la pista, ma di Augusto Frilli e di Simba, nemmeno l’ombra.
E qui la storia assume i contorni vaghi della leggenda. Papà aveva una sua personale versione dei fatti. Ce l’avrà raccontata almeno cento volte e ogni volta che alzava il gomito aggiungeva nuovi particolari; e si sa che in una storia come questa i dettagli sono importanti. Insomma, vedendo che il nonno non arrivava, il babbo si precipitò dietro le quinte. Nonno Augusto era tutto sudato. Erano più di dieci minuti che cercava di aprire la bocca di Simba per applicargli la protesi, ma Simba non ne voleva proprio sapere. La povera bestia aveva un ascesso al molare sinistro e soffriva terribilmente. Il gonfiore era visibile ad occhio nudo e ogni volta che il nonno gli sfiorava la mascella Simba si ritraeva con un sordo brontolio minaccioso. Papà si rese subito conto della gravità della situazione e azzardò l’ipotesi di saltare l’esibizione e andare avanti con lo spettacolo, ma nonno Augusto era più testardo di un mulo e mai e poi mai avrebbe rinunciato al suo momento di gloria. Dopo ulteriori e penosi tentativi, nei quali per poco il nonno non ci rimise un braccio, fu raggiunto un onorevole compromesso: il numero si sarebbe fatto ugualmente, ma senza i denti.
“E’ meglio così, credimi” disse papà “lo vedo piuttosto nervoso…”
“Se questa stupida bestia non avesse avuto il terrore del fuoco gli avrei insegnato a saltare nel cerchio e adesso non saremmo in questa situazione…” il nonno andava avanti e indietro e Simba lo seguiva con lo sguardo.
“Non è colpa sua, lo sai… quando ci fu l’incendio si salvò per miracolo, gli altri cuccioli non furono così fortunati… e poi può capitare a tutti di stare male…”. Simba approvò con un sospiro e cominciò a leccarsi le zampe.
“E allora tieni le luci basse e sistema la pedana in modo che il pubblico non si accorga di nulla…” il nonno era inferocito.
“Vuoi che lo metta di spalle? Ma così si perde tutto l’effetto…” argomentò papà.
“Ma che sei scemo?” sbottò il nonno “mettilo a tre quarti, rivolto verso l’orchestra”.
L’orchestra era composta da tre persone: Ciro, Manuelo e Orlando. Ciro e Manuelo facevano gli acrobati e i pagliacci, il primo suonava la chitarra e il secondo la tromba; Orlando era uomo di fatica e suonava il tamburo.
Fatto sta che quando, finalmente, Augusto e Simba entrarono in pista, il pubblico li accolse piuttosto freddamente: la gente era stanca di aspettare e cominciava a rumoreggiare. Chi si attendeva un mangiatore di uomini rimase visibilmente deluso: più che una belva feroce, Simba sembrava un gattone insonnolito. Nonno Augusto tentò di rianimarlo pungolandolo con il bastone e facendo schioccare più volte la frusta; Simba gli lanciò un’occhiataccia e, ciondolando lemme lemme, si diresse verso la sua postazione. Si arrampicò sulla pedana una zampa per volta, si voltò verso il nonno, fece un enorme sbadiglio e si accasciò come un sacco vuoto con una zampa sulla testa. Il pubblico scoppiò a ridere, alcuni cominciarono a fischiare e Augusto provò tanta vergogna, come non ne aveva mai provato in vita sua. Papà osservava la scena preoccupato, aveva uno strano presentimento…
Il nonno era molto nervoso e se la prese con il povero Simba. C’era un solo modo per scuoterlo dalla sua apatia e lui lo conosceva bene. Lo innervosiva avvicinandogli la punta del bastone alla mascella per costringerlo a reagire e Simba, terrorizzato dall’idea del dolore, ruggiva minaccioso e allontanava il bastone fendendo l’aria con le sue unghie affilate. Adesso si che sembrava un leone, pensava nonno Augusto e, con un sapiente movimento combinato di bastone e frusta, lo costrinse a mettersi in piedi. Simba rimase in quella posizione per alcuni secondi e il pubblico esplose in un fragoroso applauso. Il nonno sapeva come impressionare la platea e accennò un inchino. Adesso veniva la parte più difficile…
Il babbo afferrò il megafono e invitò il pubblico a fare il massimo silenzio, mentre Simba, seduto sulla pedana, con la bocca spalancata, vedeva la testa bianca del nonno avvicinarsi pericolosamente al suo ascesso dolorante. Le luci abbassate, la gente che tratteneva il respiro, il rullo incessante del tamburo, il tempo sembrava come sospeso mentre il nonno allargava le fauci di Simba e vi infilava, delicatamente, la propria testa…“Mi fai accendere?” disse Manuelo sottovoce.“Tieni” disse Ciro passandogli lo zippo che aveva appena caricato di benzina…Fu un attimo. Manuelo azionò la rotellina e l’accendino sprigionò una gran fiammata. Simba sbarrò gli occhi inorridito e serrò le mascelle. Il nonno rimase imprigionato nella morsa, la testa premuta sull’ascesso. Simba lanciò un ruggito di dolore e si voltò di scatto dall’altra parte. Track! E il nonno si spezzò la noce del collo. Sotto il tendone calò un silenzio di tomba… Manuelo rimase a bocca aperta con la sigaretta che gli penzolava dalle labbra, Ciro gli strappò di mano l’accendino e se lo ficcò in tasca, Orlando distese le braccia lungo i fianchi e lasciò cadere le bacchette, con lo sguardo fisso su quella scena raccapricciante. Nostro padre era lì, imbambolato, con il megafono in mano, mentre il vecchio leone si guardava intorno con l’espressione impaurita di chi sa di aver sbagliato. Simba allentò la presa e il corpo senza vita del nonno scivolò sulla terra battuta con un tonfo sordo. Simba chinò il capo e lo guardò per alcuni interminabili secondi, quindi scese lentamente dalla pedana e andò a strofinargli il muso sul collo; poi, vedendo che non si muoveva, si accucciò vicino a lui, tenendogli la testa tra le zampe e prese a leccargli i capelli. Sembrava quasi che tutti aspettassero che il vecchio si rialzasse per tirare un sospiro di sollievo ed applaudire all’originalità del numero. Ma, purtroppo le cose non stavano così e fu nostra madre a capirlo per prima: il suo urlo squarciò il velo del silenzio e scatenò il putiferio. Papà si precipitò nella gabbia e nel farlo lasciò la porta aperta sicché il pubblico fu preso dal panico e si verificò un fuggi fuggi generale: donne che urlavano, bambini che piangevano, spinte, gomitate, persone che inciampavano e altri che le calpestavano senza pietà cercando di guadagnare l’uscita. Papà tornò sui suoi passi e nel richiudere la gabbia schiacciò una mano a Ciro che si era fatto largo tra la gente per correre in suo aiuto; un vigile urbano sparò quattro colpi di pistola in aria per riportare la calma e venne travolto dalla folla impazzita; uno dei proiettili tranciò di netto un cavo del tendone che si afflosciò di colpo imprigionando i ritardatari che presero ad agitarsi come gatti impazziti sotto un lenzuolo. Insomma, una vera e propria catastrofe!Solo Simba manteneva la calma. Accucciato vicino al nonno, sembrava che stesse lì lì per piangere…

“No, maresciallo, mi creda… è stato un incidente, un malaugurato incidente. Quel leone non farebbe male ad una mosca. Pensi che è rimasto lì, accanto al corpo senza vita di mio suocero, per più di due ore… non faceva avvicinare nessuno… povera bestia, gli voleva tanto bene…”
“Sarà… ma vede, cara signora, la Legge…”
“Gastone, di’ qualcosa anche tu… avanti, parla!”
“Maresciallo, mia moglie ha ragione e, se volete, sono pronto a mettervelo per iscritto… il leone non stava tanto bene, aveva un ascesso ad un molare…”
“Io non vi capisco, scusate, ma allora perché non avete chiamato un veterinario?”
“Lo so, maresciallo, avete ragione, ma mio suocero, pace all’anima sua, aveva la testa dura…”
E qui i coniugi Frilli raccontarono al maresciallo Scognamiglio come si erano svolti i fatti. Il maresciallo era una persona a modo, li ascoltò senza interromperli, vagliò fatti e circostanze, aggravanti ed attenuanti e tirò le conclusioni: nella peggiore delle ipotesi si trattava di omicidio colposo e il leone era incensurato. Il maresciallo Scognamiglio sposò la tesi dell’incidente e fu così che Simba, il divoratore di uomini, titolo che ormai si era guadagnato sul campo, ebbe salva la vita.

Passarono gli anni e quelli che seguirono furono tempi difficili. Il nonno aveva lasciato un grande vuoto e Simba, dal giorno dell’incidente, non si era più ripreso completamente: era depresso, mangiava poco e niente e si era ridotto pelle e ossa. Nostro padre, dal canto suo, era stato costretto a rinunciare ai suoi sogni di domatore per l’assoluta mancanza di materia prima. Ormai giravamo solo per paesini sperduti e periferie degradate. Un po’ alla volta ci stavamo trasformando da compagnia circense in compagnia di saltimbanchi. Arrivammo al punto di inventarci l’attrazione della Piovra gigante, un enorme tentacolo di gomma rimediato a poco prezzo tra gli scarti di Cinecittà, che veniva agitato in una vasca di acqua torbida e spaventava tanto i bambini. Ma anche questa attrazione non andò avanti per molto. Ciro, Manuelo e Orlando cercarono fortuna altrove e la nostra famiglia si ritrovò sola ad affrontare le difficoltà di una vita girovaga. Noi ragazzi intrattenevamo il pubblico con esercizi sempre più complessi: birilli, cerchi, anelli, palline, giochi di equilibrio, salti, volteggi, qualunque cosa pur di strappare un applauso che giustificasse i nostri sacrifici. Ma la vita era dura e nostro padre non ne poteva più di travestirsi da fachiro e infilarsi spilloni nelle carni: era ricoperto di cicatrici. Lui aveva sempre sognato di fare il domatore e, oltretutto, quegli spilloni, sono parole sue, facevano un cazzo di male!
La mamma cercava di tranquillizzarlo, minimizzando le difficoltà, ma non poté impedirgli di cercare conforto altrove e papà diventò un alcolizzato.
Simba, nonostante l’età avanzata, si guadagnava il pane posando per le foto. C’erano ancora bambini che non avevano mai visto un leone, nemmeno per televisione. Eravamo noi ragazzi a prenderci cura di lui, nonostante le perplessità di nostro padre: ci divertivamo a spazzolarlo e a farlo bello, era pur sempre il nostro leone, e lui ci voleva bene. Ce lo dimostrava mettendosi a pancia all’aria quando giocavamo insieme, facendoci le fusa quando gli grattavamo le orecchie e leccandoci la faccia con quella sua enorme lingua rasposa… in fin dei conti era un cucciolone. E le nostre cure gli fecero un gran bene: un po’ alla volta, nonostante le evidenti difficoltà di masticazione, riprese a mangiare e riacquistò un po’ di peso.
La mamma apprezzò molto il nostro impegno, nostro padre un po’ meno: diceva che per stare appresso a quella bestiaccia trascuravamo i nostri esercizi. Quando mi permisi di dire che Simba non meritava quell’appellativo mi guadagnai un ceffone e la cosa mi fece molto male. Non l’avevo mai visto così alterato, poi capii… aveva bevuto ancora!
Quella sera i nostri genitori litigarono di brutto, volarono parole grosse: mio padre dava la colpa di tutte le nostre difficoltà al povero Simba, mia madre cercava di farlo ragionare ma senza alcun risultato. Alla fine nostro padre prese la bottiglia di vino e uscì sbattendo la porta del carrozzone e noi andammo a dormire. Fu un sonno agitato. Ricordo che mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte, mi era parso di aver udito un ruggito di dolore e pensai a Simba, poi sentii la porta del carrozzone che si apriva e si richiudeva di colpo e capii che mio padre era rientrato. Non riuscivo a chiudere occhio. Aspettai per alcuni lunghissimi minuti finché lo udii russare, poi mi infilai le scarpe e uscii nel buio della notte senza fare il benché minimo rumore. Mi diressi a passo svelto verso la gabbia di Simba e nell’avvicinarmi sentii il cuore battermi forte in petto. Al buio non riuscivo a vederlo e solo quando fui molto vicino alle sbarre scorsi il luccichio dei suoi occhi e mi resi conto che si era rintanato in un angolo e che stava male. Aprii il chiavistello della gabbia e mi avvicinai a lui. Aveva il respiro affannoso, ma nonostante tutto cercò di farmi le fusa. Lo tastai dappertutto per vedere se avesse qualcosa di rotto e lui mi lasciò fare, ma quando gli toccai il fianco emise un sordo brontolio minaccioso. Ritirai la mano, era sporca di sangue: Simba aveva una brutta ferita. Mi guardai intorno e alla pallida luce della luna vidi qualcosa che avrei preferito non vedere: un collo di bottiglia!
Fu allora che mi accorsi di lui.
“Che cosa ci fai qui? Torna a dormire!”
“Assassino!”
“Cosa hai detto?”
“Perché l’hai fatto?”
“Sono tuo padre e non devo darti spiegazioni. Torna a dormire!” la sua voce era impastata dal vino e lui non si reggeva in piedi. Mi sollevai e mi piantai di fronte a lui con aria di sfida.
“Io da qui non mi muovo!”
“Ah si? Voglio proprio vedere”.
Mio padre era fuori di sé dalla rabbia. Afferrò il bastone che era appeso alle sbarre e mi si scagliò addosso, percuotendomi come una ossesso. Mi riparai la testa con le braccia e questo lo fece infuriare ancora di più. Non so quante volte mi colpì, so solo che a un certo punto si fermò di colpo e arretrò di qualche passo. Fu un attimo. Avvertii una massa che mi sfiorava e che si avventava su di lui con un ruggito: era Simba.
Mio padre indietreggiò, ma era troppo ubriaco. Simba si accasciò al suolo, lo sforzo gli era stato fatale, e mio padre cadde all’indietro battendo violentemente il capo sulle sbarre. Restai impietrito, ma solo per un istante. Simba e mio padre giacevano vicini, fianco a fianco. Simba respirava ancora, mio padre no. Il collo di bottiglia gli aveva reciso la giugulare e il suo sangue scorreva come una fontana, impregnando lo spesso strato di segatura su cui giaceva, agonizzante, il mio amico Simba. Mi inginocchiai accanto a lui, gli sollevai il capo e me lo adagiai in grembo. Com’era grande, com’era buono, com’era coraggioso il mio Simba. Gli sussurrai tante parole dolci, gli raccontai del paradiso dei leoni e che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo e che avremmo corso insieme sotto il sole cocente della savana africana. Simba aveva gli occhi umidi, aveva capito tutto e mi regalò un ultimo ruggito. “Addio Simba, addio amico mio” gli dissi, e lo baciai sulla fronte.

Non fu facile spiegare l’accaduto. Mia madre era disperata, i ragazzi perplessi, la polizia incredula. Penso che molti avranno sospettato un parricidio, ma tant’è. La verità è questa, strana quanto volete, ma è questa. Da allora, nel circo Frilli non ci sono stati più animali, e a chi ci chiede il perché, rispondiamo che è per scaramanzia.

© 2017. Lello Cicalese
Tutti i diritti riservati

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